Quale filosofia per quale medicina?
Si può dire, seppur schematicamente e non tenendo conto delle varie sfumature esistenti, che il panorama attuale ci presenti tre modelli di medicina: quella definita Evidence-Based Medicine, centrata sulle evidenze, che cerca di isolare i fatti senza conferirvi altri significati se non quelli immanenti di prove oggettive; di contro, una medicina critica nei confronti della sua stessa pretesa di esattezza, ma in nome di una concezione debolista della ragione; infine, una medicina umanizzata o umanitaria, attenta a sottolineare la non completa oggettivabilità di nozioni come corpo, salute, malattia e dunque tesa al recupero di quei significati che trascendono i semplici fatti.
Ciascuno di questi tre modelli rimanda più o meno esplicitamente ad un orizzonte filosofico di riferimento, che a sua volta implica inevitabilmente un fondamento metafisico.
In effetti, anche in un contesto di tecnicismo o di scientismo, è sempre presente una visione metafisica, potremmo dire in una duplice dimensione: una metafisica inconsapevole e una metafisica implicita. La prima, che abbiamo definito, inconsapevole, è quella di ogni scienziato, e dunque di ogni medico, che possiede, anche suo malgrado, delle ipotesi metafisiche, giacché non c’è attività scientifica che non si accompagni a una visione dell’uomo e del mondo. Questa metafisica inconsapevole è pre-scientifica, relativa al soggetto e converge verso quello che è l’interrogativo centrale di ogni sapere: l’irrinunciabile domanda sul senso.
Ma vi è anche una metafisica implicita, potremmo definirla una cripto-metafisica, che è sottesa ad ogni tipo di ricerca scientifica. «Ogni disciplina scientifica — nota E. Agazzi — ha le caratteristiche di un complesso inquadramento ermeneutico», per cui in essa entrano in gioco molteplici fattori e rivestono un peso considerevole principi metafisici, categorie storiche, ideologie, condizioni tecniche, in base alle quali lo scienziato perviene ad autentiche Gestalten, intese come uno schema concettuale di carattere generale o, in altri termini, come il suo modo di vedere la realtà. Vi è quindi un’implicita tensione metafisica in ogni ricerca scientifica.
La Evidence-Based Medicine ha introdotto nella pratica clinica un maggiore rigore metodologico, grazie alla realizzazione di rassegne sistematiche, che intendono offrire sintesi complete delle prove di efficacia, trials, degli interventi terapeutici in un certo ambito; la finalità è quella di raggiungere la maggiore obiettività possibile in modo da aiutare non solo il medico a selezionare la terapia, ma anche il paziente a prendere decisioni informate. Questo modello di medicina si avvale del trasferimento sistematico dei risultati della ricerca alla pratica clinica, che sarebbe così in grado di diventare sempre più precisa, progressivamente più standardizzata e con margini di sicurezza sempre più ampi.
Dal punto di vista metodologico, si tratta di un’innovazione che ha conferito alla medicina uno statuto epistemologico più preciso; essa presuppone che vi sia una razionalità nel reale e che i fatti scientificamente accertati abbiano il carattere di prove. Tuttavia, non mancano elementi che inducono a riflettere criticamente su questa impostazione della scienza medica: ad esempio, la mole dei dati progressivamente più ampia non finirà per non essere più dominabile? E come oggettivare e misurare fattori quali la relazione interpersonale tra medico e paziente o la volontà di guarire da parte del paziente, che hanno un peso rilevante nell’efficacia di certi interventi terapeutici? O ancora che misura troveranno quei fattori extra-scientifici, per i quali avviene il percorso decisionale o che inducono alla selezione di un intervento piuttosto che di un altro? E la ricerca della terapia ideale o la pretesa di margini di sicurezza sempre più ampi non ripropongono forse l’eterno sogno dell’uomo di poter dominare totalmente la vita e la morte?
Queste perplessità mettono chiaramente in evidenza che è necessario un orizzonte filosofico di riferimento, dove nozioni come fenomeno, causalità, dimostrazione scientifica ricevano la loro collocazione e il loro significato più adeguato. Non soltanto esiste un ambito di indagine che non è identificabile in toto con quello scientifico, ma la stessa nozione di evidenza, che qui riveste un ruolo chiave dal punto di vista metodologico, chiama in causa una questione di carattere epistemologico: si rende infatti necessaria una meta-analisi che distingua il grado di certezza di ciascuna evidenza, in relazione al tipo di esperienza che ne costituisce il fondamento.
Un’altra critica rivolta alla Evidence-Based Medicine prende le mosse dal presupposto che i cosiddetti fatti sono solo descrizioni della realtà e dunque sono artefatti, cioè prodotti di costruzioni teoriche, sempre esposti alla falsificazione. Si tratta di osservazioni che sorgono nell’ambito di una riflessione più ampia sul metodo della scienza, che hanno come sfondo le considerazioni popperiane a proposito del carattere congetturale e ipotetico del sapere scientifico.
Pur tenendo conto che non esiste un’osservazione pura, cioè al di fuori di un determinato contesto teorico, e che c’è sempre la possibilità che i fatti smentiscano altri fatti precedentemente accertati, tuttavia, per non cadere in un fallibilismo esasperato, che ridurrebbe le conclusioni della scienza a semplici congetture, bisogna riconoscere che la dimostrazione scientifica ci fornisce una conoscenza vera, anche se contestuale e perfettibile. Anche in questo caso, per superare tale riduzionismo, si tratta di richiamarsi a una prospettiva metafisica, a un fondamento extraempirico che consenta alla ragione di poter giungere a formulazioni universali sulla realtà, senza essere costretta a rimanere chiusa nella relatività di una conoscenza fenomenica.
Allo stesso tempo, una formazione di carattere filosofico, in particolare ermeneutico, renderà possibile evitare l’atteggiamento opposto, quello del dogmatismo della “cultura della prova”. Non è un dato irrilevante che le rassegne sistematiche di trials costituiscano di per sé già un’interpretazione e una selezione dei fatti e non i fatti stessi; esistono svariati fattori, e non tutti strettamente scientifici, che ne hanno reso possibile la diffusione e l’accessibilità. La formazione medica reclama allora, proprio nei confronti della Evidence-Based Medicine, una nuova competenza di tipo epistemologico ed ermeneutico, un’esigenza che ha trovato espressione nella cosiddetta Best evidence Medical Education (BEME). Con questo nome si intende indicare una precisa modalità dell’educazione del personale sanitario, che assicuri contro il rischio tanto del dogmatismo che del fallibilismo o del dilettantismo, mettendo l’accento sulla rilevanza e insieme sulla contestualità delle prove di efficacia.