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Di fronte all’orrore a cui assistiamo, un alito di poesia onora il sacrificio di tante vittime inermi. Restiamo umani!
Ripercorriamo la storia di Gaza attraverso i suoi scrittori e poeti. Dalla Nakba del 1948, all’occupazione del 1967, fino agli incessanti bombardamenti di oggi, con le parole di Mahmoud Darwish, Rifaat al-Areer, May Sayigh, Najwan Darwish, Fatina al-Ghurra, Mosab Abu Toha e Hiba Abu Nada.
Di Simone Sibilio – da MicroMega, 15 Febbraio 2024
“Gaza non si vanta delle sue armi, né del suo spirito rivoluzionario, né del suo bilancio. Lei offre la sua pellaccia dura, agisce di spontanea volontà e versa il suo sangue. Gaza non è un fine oratore, non ha gola. È la sua pelle a parlare attraverso il sangue, il sudore, le fiamme….
Pur restando priva di gola, senza voce, Gaza si batte per garantirsi la continuità nel tempo. Anche davanti alla presagita fine, celebrare la speranza di rigenerazione attraverso la possibilità del racconto di vita da tramandare, è ciò a cui si appellava Rifaat al-Areer (1979-2023), scrittore e docente universitario di Letteratura, che così scriveva pochi giorni prima che un bombardamento israeliano mettesse fine alla sua vita a Khan Younis, il 7 dicembre scorso:
Se io dovrò morire,
tu dovrai vivere
per raccontare la mia storia
vendere le mie cose
comprare un pezzo di stoffa
e qualche filo
(magari bianco con una lunga coda)
così che un bimbo, da qualche parte a Gaza
mentre fissa il cielo
in attesa di suo padre
– morto all’improvviso senza dire addio a nessuno
né alla sua pelle
né a se stesso –
veda il mio aquilone
quello che tu hai costruito
volare alto
e pensare, per un attimo, che sia un angelo
a riportare amore.
Se io dovrò morire,
che porti allora una speranza
che la mia fine sia un racconto…..”
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