RossanaL’aumento degli episodi di violenza contro gli operatori sanitari è ormai un problema di rilevanza nazionale. Pazienti e familiari sono sempre più aggressivi e minacciosi, gli operatori vivono in stato di costante allarme e con la percezione di un pericolo reale e quotidiano. Le contromisure, alcune delle quali già in atto da anni, hanno tutte la stessa caratteristica: aumento della presenza della forza pubblica nelle strutture sanitarie, corsi di difesa personale agli operatori (!), proposte di negare la gratuità delle cure agli aggressori, fino alla conclusiva formula “tolleranza zero per i violenti”. Violenza istituzionale contro violenza individuale. Alle botte si risponde con altre botte e con l’instaurazione dello stato di guerra permanente effettiva tra i cittadini e il corpo sanitario.

Nessuno finora ha preso seriamente in esame le radici e i possibili motivi di tanta palese avversione verso la medicina che nel tempo è cresciuta invece di diminuire. Non risponde ad alcuna comprensibile logica che la gente (che accetta le code alle poste, nei supermercati o agli sportelli bancari senza per questo infierire sugli addetti) abbia preso l’abitudine di sfogare la propria aggressività solo e in particolare sulla classe sanitaria.

Inutile aggiungere altri dettagli sconfortanti come ragione oggettiva per tali eccessi: interminabili liste di attesa, riduzione degli organici, risposte inadeguate alle aspettative esplicite e implicite dell’utenza. Ormai il resto delle esperienze di vita della maggior parte della popolazione con una povertà in continuo aumento e una crescente inaccessibilità o addirittura indisponibilità di diritti essenziali (lavoro, alimentazione, istruzione, etc.) non sono affatto diverse eppure non eccitano alla rivolta popolare o all’esasperazione dei singoli.
Qual è dunque la differenza che marca una così specifica e diretta avversione contro la sanità? La violenza fisica è l’ultima, ed estrema, espressione di un malanimo che serpeggia fra i pazienti da oltre vent’anni e che è esploso nel vertiginoso aumento del contenzioso medico-legale. Inteso all’inizio dall’interno della sanità come malizioso espediente per trarre un profitto pecuniario da procedure a volte non del tutto corrette o comunque formalmente reprensibili, il contenzioso medico-legale era già il sintomo di una rottura irrimediabile della cosiddetta “alleanza terapeutica” che aveva sancito per secoli l’accordo, per lo più implicito, fra curante e curato sulle finalità beneficiali della cura. Seppure sempre strutturalmente asimmetrico, il rapporto di cura godeva di una più o meno ben riposta fiducia nelle capacità dell’operatore di rispondere adeguatamente ai bisogni di salute del paziente.  Ma nel corso del tempo, questa fiducia si è incrinata fino a dissolversi quando il livello di informazioni e di consapevolezza dei pazienti è cresciuto rendendoli sempre più soggetti attivi nei processi di cura e quindi meno disposti a dare deleghe in bianco al proprio curante.

La medicina non ha saputo adeguarsi a questo cambiamento epocale della natura della relazione e si è arroccata nella imposizione di procedure standard, nell’applicazione pedissequa di linee guida e protocolli, trascurando del tutto che il paziente oggi chiede di essere trattato come un individuo senziente, capace di condividere le decisioni sul proprio destino in modo altamente soggettivo e personalizzato.

In parallelo si è assistito ad una sequela di tragiche condizioni che affliggono in modo epidemico il personale sanitario: la crescita del Burn out (logorio lavorativo), la dipendenza da alcol e da sostanze, il suicidio.

Anche per questo aspetto non è sufficiente evocare la facile equazione organizzativa condensata nella scarsità di personale e nello stress lavorativo che, seppure incidano sulla fisiologia individuale, non avrebbero minato alla base un’intera vastissima categoria di lavoratori. Nel personale sanitario emerge un difetto di motivazione, una disaffezione diffusa al modello di cura, una povertà asfittica di prospettive che hanno contratto la vocazione originaria di chi, scegliendo di esercitare nel mondo della cura, non ha in mente un ruolo puramente esecutivo e routinario. La sindrome del Burn out rende apatici, alessitimici, incapaci di empatia, fondamentalmente depressi e incapaci di infondere alcuna fiducia a chi si attende proposte di cura e prospettive di guarigione. Snocciolare dati statistici in nome di una presunta trasparenza informativa ad un paziente con una diagnosi inquietante non sollecita in lui cooperazione e motivazione.

Altrettanto l’affermare incontestabili certezze in un contesto che conosce solo probabilità può suscitare infondate aspettative da cui derivano poi abnormi delusioni. Una lunga esperienza di direzione sanitaria in campo prevalentemente oncologico mi porta a sostenere  che il contenzioso (e di conseguenza la violenza fisica) si riduce o si azzera quando il paziente e i suoi  familiari hanno percepito nel curante la sua effettiva partecipazione al problema, il suo impegno a fornire la migliore prestazione (con tutti i  prevedibili rischi e margini di incertezza); cioè quando l’umanità non è solo esercitazione formale ma condivisione sostanziale del substrato immanente, comune a ogni individuo – sia esso curante o curato. Nessun operatore in Burn out è in grado di accogliere un paziente e motivarlo a riacquistare fiducia in lui e nella vita. Nessun operatore addestrato a ripetere protocolli e statistiche può suscitare nel malato una reazione positiva, fiduciosa e cooperante.

In un campo così sensibile com’è quello della cura, la disumanizzazione dei curanti accende e stimola la disumanizzazione dei pazienti.

Tutta la medicina occidentale si è conformata da circa due secoli a un modello bellicista e belligerante col suo repertorio di simboli di “agente patogeno”, “lotta al male”, “sconfitta della malattia”; la sanità è organizzata come un apparato militare con gli ospedali divisi in reparti, sezioni e rigide gerarchie di ruolo.

Questo immaginario collettivo, a partire dagli operatori sanitari che più di tutti lo praticano e lo propugnano, genera un atteggiamento diffuso per il quale ci troviamo costantemente nella paura e in difesa. Sia che si tratti di un agente esterno come un batterio o un virus o di un agente interno come nel caso del cancro, sempre li percepiamo come nemici da cui difendersi e che bisogna sconfiggere reagendo colpo su colpo.

I pazienti sono indotti a sentirsi come vittime all’interno di un sistema bellicista in cui il curante è un generale che li richiama alla battaglia: e alla fine, a lungo andare, da aggrediti sono diventati aggressori. Se adesso paradossalmente il medico aumenta la sua diffidenza e il suo sospetto nei confronti del paziente, con reazione uguale e contraria il paziente si arma non più solo contro la malattia ma anche contro il suo curante.

E’ evidente che questo cortocircuito non soltanto rompe l’alleanza terapeutica ma mina alla base l’idea stessa della cura.

Il modello bellicista oggi ha tracimato nella cultura sociale che ostracizza il pacifismo e inneggia alla guerra guerreggiata, condannando i pacifisti come disertori e presunti collaborazionisti.

In sanità, la disumanizzazione militaresca ha portato pessimi effetti: invece di costruire alleanze, ci stiamo barricando nelle strutture come dentro a fortini.

Mentre biologia, botanica e etologia sempre più mostrano che la natura vive di strutture cooperative e armoniche che si arricchiscono della infinita biodiversità delle specie, il riduttivismo pseudoscientifico ha voluto costringere la creatività e l’insopprimibile Intersoggettività di ogni processo di cura alla ripetizione meccanicista delle procedure.

Questo ha nuociuto in primis alla salute degli operatori ma, come indesiderabile conseguenza, il loro malessere ha generato un effetto destruente sui pazienti, non solo diminuendo l’efficacia delle cure ma anche annichilendo la loro compliance e soffocando la necessaria e fondamentale fiducia reciproca.

Il libro pacifista “Il Buon Soldato Sc’eik” di Jaroslav Hasek, con il suo sottotitolo “Botte da orbi e ancora botte da orbi”, racconta di come la perfetta applicazione delle regole burocratiche da parte dell’ingenuo soldato cecoslovacco riuscisse ad inceppare il meccanismo dell’imperial-regio governo austroungarico fino a portarlo alla disfatta totale della prima guerra mondiale.

Nello stesso modo, soggiacere alla logica della guerra permanente, in cui tutti sono nemici e alla paura del nemico si reagisce aumentando le armi, non permetterà la sopravvivenza del sistema sanitario.

Più che mai in questi tempi bui, occorre ripartire dall’umanizzazione della medicina per riumanizzare la società.

Come in natura non è la competizione e la guerra fra le specie ma l’equilibrio armonico fra tutte le sue componenti che regge l’universo da milioni di anni, così per sua stessa essenza, la cura è un atto di pace e di fiducia reciproca.

Occorre restituire alla cura la sua funzione istitutiva di ogni pratica sociale, che si espande nella non violenza, nell’accoglienza e nell’accettazione di ogni diversità – di cui la malattia è sommo simbolo ed emblema.

Altrimenti non solo la sanità si candida alla sua sparizione ma la stessa specie umana potrebbe presto sprofondare nell’ annientamento del pianeta.

Rossana Becarelli, medico, antropologo, filosofo della scienza, già Direttore sanitario dell’ospedale San Giovanni Antica Sede di Torino e Presidente di HUM MED (Rete Euromediterranea per l’Umanizzazione della Medicina).