Articolato con disinvoltura e attraverso una messa in scena funzionale e ispirata, Ippocrate fa ingoiare la pillola, misurando la crisi che attraversa l’ospedale pubblico dopo l’introduzione della nozione di ‘redditività’ e lo stato di salute ottimale del cinema popolare francese. Realizzato prima di Medico di campagna ma arrivato due anni dopo nelle sale italiane, il nuovo film di Thomas Lilti piazza la cura al cuore del discorso politico e raggiunge il raro obiettivo di intrattenere e informare su un’istituzione maggiore avvincente e misteriosa. Anche per questo se ne prescrive la visione.
Benjamin Barois ( Benjamin è anche il secondo nome di T. Lilti) ha ventitré anni e il sogno di diventare un grande medico. Ma per ora di grande ha solo il camice, offerto dall’ospedale e “decorato” con “macchie pulite”. Per sei mesi dovrà occuparsi di dieci stanze e diciotto pazienti. Ad osservarlo il padre, primario autoritario nello stesso ospedale, ad affiancarlo Abdel Rezzak, medico algerino competente e umano “facente funzioni d’interno”. Di guardia, una notte è chiamato a occuparsi di un paziente che accusa forti dolori addominali. Benjmain si limita a somministrargli un analgesico ma l’indomani l’uomo è morto. Padre e superiori coprono l’errore, la vedova chiede spiegazioni, Abdel pone domande, Benjamin è confuso. Deluso da se stesso, cerca la maniera di rimediare e di diventare un medico migliore.
Tra un film e l’altro, Thomas Lilti cura i pazienti. L’autore francese sa bene di cosa parla e pratica quello di cui parla. Una curiosa carriera, quella di Lilti: una bocciatura alla scuola di cinema l’ha portato a intraprendere gli studi di medicina, più che altro per quieto vivere e per far contento il padre, anche lui medico…
Figlio dei Lumière e di Ippocrate, Lilti passa in rassegna al cinema le disfunzioni strutturali dell’istituzione ospedaliera francese coi suoi macchinari obsoleti, la mancanza di personale e di mezzi, la sorte dei medici stranieri relegati ai ruoli secondari, la ricerca del profitto a spese dei pazienti. Girato interamente in ospedale, Ippocrate è un racconto di formazione in corsia che segue l’apprendistato tormentato di un giovane internista al servizio di suo padre. Ma la pratica si rivela presto più dura della teoria. La responsabilità è schiacciante e il protagonista dovrà confrontarsi brutalmente coi suoi limiti, le sue paure e quelle dei suoi pazienti.
La sua iniziazione comincia e con quella un film sincero nutrito dell’esperienza del regista, degli aneddoti e delle testimonianze raccolte sul campo. Muovendosi tra un caso di coscienza, un alcolizzato che muore e avrebbe forse potuto essere salvato, un dilemma etico, una vecchia paziente giunta alla fine della vita, un conflitto sociale sordo ma permanente, alimentato dalle condizioni di lavoro estreme, le rivalità e i piccoli accomodamenti al centro di tutti i microcosmi professionali, l’autore disegna prevedibilmente ma con appropriatezza un universo ambivalente. Un universo con le sue gerarchie, i giochi di potere, il peso delle responsabilità, l’impunità, gli errori e le loro conseguenze. Il passo falso del protagonista di Vincent Lacoste, che trova in Ippocrate materia per affinare il suo eterno personaggio di loser lunare, costituisce il primo filo drammatico del film.
Il secondo, di carattere morale, riguarda il dramma di una vecchia signora che vorrebbe soltanto smettere di soffrire e lasciarsi morire. In entrambe le situazioni Benjamin si deve confrontare col medico algerino di Reda Kateb. La loro compatibilità, mutuale e progressiva, produce la precisione dell’esercizio medico e dei gesti che accompagnano il proposito: la precarietà del mestiere della salute.