https://pixabay.com/it/photos/gaza-striscia-palestina-3829405/

Immagine di Hosny Salah da Pixabay.

Sta accadendo qualcosa di più irreparabile dei gulag e dei campi dì concentramento.
L’addestramento alla disumanizzazione investe tutto l’Occidente. Aver fornito (o prodotto) un alibi allo scempio che si sta perpetrando è una miserabile foglia di fico al massacro e prenderla per buona ci condanna in una geenna da cui non ci sarà scampo per tutta la nostra cosiddetta “civiltà”.

 

Gaza e Cisgiordania sotto assedio: dieci giorni di fuoco e morte
Un diario degli eventi conosciuti tra il 1° e l’11 giugno 2025  – Post
di Lavinia Marchetti – 11 giugno 2025

Tempo fa leggendo una poetessa armena, sopravvissuta al genocidio, trovai un passaggio dai suoi pensieri in cui si confidava che per non impazzire aveva cominciato a scrivere ogni giorno ciò che vedeva: date, nomi, frammenti. Tenere un diario, come si raccoglierebbero cocci dopo un’esplosione. Ecco perché negli ultimi mesi tra il rumore sommesso del caffè che sgorga e una notizia in fondo al feed, ho deciso di rileggere il mio, quello degli ultimi 10 giorni. Quello che ho trovato, non è una cronaca. È una cartografia del disumano.

1 giugno: la fame è diventata una colpa
Nel sud di Gaza, a Tel al-Sultan, migliaia di persone si sono messe in fila per ricevere un sacco di farina. È la cosa più umile che si possa chiedere: un po’ di pane. Poi è arrivata la raffica.
Hanno sparato sulla folla, e la fila si è trasformata in un tappeto di corpi.
Trentadue persone morte, duecentocinquanta ferite. Tutti civili, tutti disarmati. Tutti affamati.
C’era chi stringeva il sacchetto, chi aveva portato i figli sulle spalle. C’era una madre che aveva fatto sei chilometri a piedi. Si chiamava Reem. È morta con le mani vuote.

Dal 2 al 5 giugno: anche curare diventa insubordinazione.
Le giornate successive sono state una discesa.
Altri morti in fila per un pacco di aiuti, altri caduti davanti alle cucine mobili.

Il 5 giugno, hanno colpito il cortile dell’ospedale Al-Ahli
Tre giornalisti e un paramedico. Uno di loro aveva appena pubblicato un video in cui diceva: “Se morirò, almeno qualcuno saprà dove”.
Nello stesso giorno, Medici Senza Frontiere ha comunicato che i loro operatori stavano donando il proprio sangue sul posto, perché le riserve erano finite. Non per retorica. Per necessità.

6 giugno: la festa del sacrificio
Durante l’Eid al-Adha, la festa che celebra Abramo e la salvezza del figlio, si contano 42 morti in diverse zone di Gaza.
Ma qui non si salva nessuno.
Dicono che all’obitorio dell’ospedale Nasser non ci fosse più spazio. Che un bambino si sia svegliato cercando la madre sotto le lenzuola. Che un padre abbia portato i resti del figlio in una scatola di cartone.
Una squadra di soccorso ha detto: “sembrava un cortile di ossa, non una casa”.

Cisgiordania: notte, sirene, porte sfondate
A Jenin, Nablus, Qalqilya, arrivano all’alba. Entrano nelle case, portano via gli uomini, a volte anche le donne.
Un ragazzo di 14 anni è stato ucciso a Sinjil.
In un’altra casa, hanno arrestato un’intera famiglia.
I vicini raccontano di urla, di luci improvvise, di piedi nudi sul cemento.
Tra il 27 maggio e il 2 giugno sono state demolite 23 abitazioni palestinesi.
A Osarin, due contadini sono stati feriti da coloni armati.
Il giorno dopo, hanno cercato di tornare nel campo. Hanno trovato le piante tagliate, i cani abbaiavano ancora.

Le voci che restano
“Ci sparavano mentre cercavamo il pane.”
“Ho visto cadere mia figlia con un sacco di farina in mano.”
“I colpi arrivano alla schiena, non al petto. Quelli stavano scappando.”
“Un uomo era a terra da dieci minuti. Non siamo mai riusciti a raggiungerlo.”

Queste frasi non sono statistiche. Sono testamenti.

Un bilancio che non è solo numerico
Dicono che in questi dieci giorni siano morti circa 500 palestinesi accertati (però bisogna contare quelli ancora sotto macerie, le morti indirette per fame e malattie…un conteggio orribile)
Ma sono numeri che si appoggiano male sulla bocca.
Perché ognuno ha un nome, una storia, un pettine dimenticato, una ciotola d’acqua per il gatto, un figlio che chiede “dove è andato papà”.

In conclusione: le parole sono come un ultimo rifugio. Ciò che accade in Palestina non è una guerra. È l’assedio della vita quotidiana. È la demolizione del gesto semplice: cucinare, riposare, aspettare.
È l’essenza stessa del “terrorismo”, fatto contro chi non può fuggire, e nemmeno più gridare. Qui c’è una piccola sintesi dell’orrore, sicuramente ce n’è tanto altro, quello che nessuno vede, i giornalisti rimasti vivi sono pochissimi, le notizie latitano. Sono certa che questo mio riassunto sia solo una piccola parte del sommerso. Gaza è ormai solo una spianata di macerie e lì sotto si annida la portata dell’orrore che non vediamo e che forse non vedremo mai.

Lavinia Marchetti