ospedale fotola Repubblica.it – Roma,  “In ospedale non ho perso solo mio figlio ma anche la dignità” – Il racconto di una giornalista in attesa 16 ore al Fatebenefratelli per un intervento che doveva durare 15 minuti – di Francesca Robertiello – 17 ottobre 2017 

 

 

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“NON c’è più battito”. Le parole della ginecologa di turno al Fatebenefratelli di Roma la notte del 9 ottobre, dove mi reco per perdite sospette.

“Non c’è urgenza di fare il raschiamento, ma è fortunata: giovedì 12 abbiamo un posto. Alle 7.30”. Ho solo il tempo di rivestirmi, telefonare al mio ginecologo e accettare l’appuntamento. Un aborto interno alla decima settimana, nonostante tutto fosse al suo posto dentro l’utero. Spero in un’espulsione naturale per evitare l’intervento. Anche se mi illudo che il piccolo sia ancora vivo. La sera di mercoledì 11 smetto di bere e mangiare. L’indomani, alle 7.15, mi presento al pronto soccorso.
ORE 10
“Il raschiamento è inevitabile. La portiamo nel reparto di ostetricia. Non abbiamo letti disponibili, ma le daremo una barella finché non si libera qualcosa”. Il verdetto, dopo oltre due ore di attesa. Mezzora dopo sono seduta su una barella in una stanza con tre donne alle fasi finali della loro gravidanza. Io che un figlio l’ho perso, sono a disagio.
ORE 11.30
Lascio la barella per un letto vero. Mi cambio e attendo l’arrivo delle infermiere per le analisi preliminari. “A O, questa nun c’ha le vene”. “Guarda qua, me rigetta l’ago. Mai vista ‘na cosa der genere”. Il colloquio rigorosamente in vernacolo tra le due, “colorato” come il livido che ora ho sulle braccia.
ORE 12.30
A mezzogiorno una dottoressa mi consegna le carte per il consenso all’operazione. Dopo trenta minuti, la visita con un nuovo ginecologo. La conferma ufficiale del raschiamento. In un paio d’ore un ovulo mi avrebbe provocato perdite ematiche e forti contrazioni dell’utero. Torno in stanza e leggo le informazioni sull’intervento. Ma sono come i bugiardini delle medicine.
ORE 14.00
Le mie compagne hanno consumato il pranzo, mentre io cerco di non pensare a quanta fame e sete ho. Voglio solo che quest’incubo finisca presto. Senza opporre resistenza mi faccio inserire l’ovulo, prendo l’antibiotico, saluto il mio compagno e per ingannare il tempo provo a riposare un po’. Due ore dopo iniziano contrazioni e perdite.

ORE 16.00
L’infermiera ripete che ancora non è abbastanza. Ed io mi chiedo cosa sia abbastanza. Sono lì dalle 7 del mattino, in attesa. “Purtroppo la sala operatoria è occupata. Abbiamo altre urgenze. Posso farle una dose di morfina”, incalza l’anestesista. Il mio compagno mi bagna le labbra con una garza imbevuta di acqua per lenire la mia sofferenza e maschera la rabbia per la profonda mancanza di rispetto che mi dimostrano da ore. Rifiuto la morfina, ma il dolore non mi lascia scelta. L’ora dell’intervento è ancora lontana.
ORE 17.30
La morfina mi ha solo stordita. La testa si è appesantita e mi sembra difficile persino respirare. Non bevo e non mangio da 20 ore. Passa un’altra ora e con occhi pietosi chiedo una flebo.
ORE 19.45
Finalmente mi portano in sala operatoria. Mi riga il volto una lacrima, non ho le forze né di avere paura né di sentirmi sollevata. Alcune domande preliminari, il posizionamento e poi il buio.
ORE 20.23
Mi risveglio in una sala gelida. Nessun medico. Accanto a me c’è una donna reduce da un parto cesareo. Le sorrido, ma vorrei capire se sto bene. Mi sollevo piano, prendo la cartella che ho ai piedi e cerco il mio referto. L’umanità del medico è un foglio di carta stampata.
ORE 21.00
Mi portano in camera. Un infermiere dice che torna presto a togliermi l’ago. Presto è un’altra ora. Gli chiedo del medico che mi ha operata. “Non c’è. Lo incontrerà domani, dopo aver trascorso qui la notte”. Day Hospital, dicevano. Ed io avevo voglia di dormire, ma nel mio letto. È notte, mangio e bevo quanto basta per rimettermi in forze. Firmo la liberatoria e vado via.

Sedici ore di attesa in ospedale. Ventiquattro senza mangiare né bere. Non importa se vieni dal Sud e se pensi di aver già visto abbastanza, il punto sembra essere sempre quello: in Italia devi pagare o conoscere qualcuno per ricevere un trattamento umano. E non importa a nessuno se stai vivendo un dramma. Giovedì sera ho perso del tutto il mio piccolo compagno di viaggio di 2,4 cm e in quell’ospedale ho perso parte della mia dignità di donna e di madre. Anche se solo in potenza